lunedì 27 luglio 2020

Anschluss, l'ultima lezione di Vladimiro Giacché

di Leo Essen

39331100. SX318 È da poco uscita per Diarkos una nuova edizione del fortunato libro di Vladimiro Giacché «Anschluss. L’annessione». Non si tratta di un raffinato esercizio culturale (alla francese), ma di un brutale abbattimento o de-costruzione (Rückbau) di tutti i luoghi comuni sulla Germania.

Il libro racconta la storia di come uno Stato, la RDT o Germania Orientale, orgoglio industriale del blocco sovietico, sia stato annesso alla Germania Occidentale e fatto regredire ad uno stadio preindustriale.

Dopo il passaggio del rullo capitalista, nei grandi centri industriali di Lipsia, Merseburgo, Magdeburgo, Vittimberga, Halle, Bitterfeld, Eggesin erano rimasti in piedi solo la pubblica amministrazione, l’artigianato, il commercio e il turismo.

Come conseguenza dell’annessione tutti i titoli di studio e le carriere apicali, come quelle degli amministratori delegati, dei quadri industriali, dei giudici, dei maestri e dei professori, degli avvocati, eccetera, furono azzerati. Stimati luminari, come il professore universitario Horst Klinkmann, quando non furono arrestati e condannati, furono sbattuti fuori dai loro posti di lavoro. Nemmeno il regime nazista era riuscito a far peggio.

La furia liquidatoria nei confronti della RDT giunse sino al punto di far pagare ai tedeschi orientali non solo i debiti contratti dal regime precedente, ma anche debiti inesistenti.

In una ragioneria impazzita il debito verso i soci di tutte le imprese della RDT, dunque il capitale di rischio, non venne considerato come il pareggio contabile dell’attivo. L’attivo venne assimilato ai rottami ferrosi, mera sopravvenienza di archeologia industriale di valore contabile pari a zero. Mentre il passivo venne assimilato a debiti verso terzi, debiti giustificati contabilmente da insussistenze passive, ovvero da ammanchi di cassa, dovuti a ruberie e distrazioni di fondi.

Tuttavia, il vero colpo di prestidigitazione messo in opera dalla Germania Occidentale riguardò la valuta. I furbi specialisti dell’Ovest (i Wessi) convinsero i fessi cittadini dell’Est (gli Ossi) che con un cambio di 1 a 1, che avrebbe riguardato i prezzi, gli stipendi, le pensioni e gli affitti, i poveri Ossi avrebbero incamerato valuta pregiata nella stessa misura di quanta cartastraccia tenevano nei portafogli – a patto di rinunciare alla loro valuta da straccioni.

In verità non si trattò di una manovra del tutto nuova e stracolma di intelligenza. La manovra era nota da tempo nel mondo dei pusher e dei loro clienti drogati. La prima dose veniva ceduta ad un prezzo di favore. Le dosi successive dovevano essere acquisite con una maggiorazione determinata dallo spacciatore.

Ignari della depravazione del capitalismo Occidentale, i poveri Ossi furono convinti facilmente a barattare i pochi spiccioli che avevano in tasca con la valuta pregiata che dava accesso ad una promessa di gioia infinita.

Le tasche dei poveri Ossi furono presto svuotate dagli affamati capitalisti della Germania Occidentale. Quando si presentarono dai Wessi e reclamarono un'ulteriore dose di valuta, questi risposero che bisogna «guadagnarsela» la valuta, che nel capitalismo niente è gratis, che non ci sono prezzi amministrati o sovvenzioni statali e prebende burocratiche o diritti acquisti; che bisogna guadagnarsi la vita col sudore della fronte; che bisogna lavorare e riuscire a piazzare sul mercato il prodotto delle proprie fatiche, e che solo a questo punto, sempre che il prodotto sia riuscito a superare una feroce concorrenza guidata dal sacrosanto principio della meritocrazia, solo a questo punto si acquista il diritto alla propria dose di valuta pregiata.

Gli Ossi non ci misero molto a capire, e, carichi di ingenuità, tornarono alle loro case e alle loro fabbriche, e piegarono la testa, e produssero tutto quello che sapevano produrre, ovvero macchinari di alta precisione, molto richiesti in Polonia e in Unione Sovietica, frigoriferi e altri elettrodomestici di alta qualità, apprezzati persino in Finlandia. Ma tutto ciò non servì a nulla, perché quando questi prodotti furono portati al mercato, i loro prezzi erano fuori di ogni grazia, e così elevati che nemmeno la loro superiore qualità era in grado di giustificare.

Non rimaneva che arrendersi, e elemosinare dallo Stato, Stato comandato dai Wessi, un misero sussidio di sopravvivenza. Sussidio che i Wessi concessero volentieri, ma solo a patto che fosse speso in Junk food prodotto nelle Fabbriche dell’Ovest.

Qui bisognerebbe aprire una lunga parentesi in cui produrre conti di ragioneria spicciola, ma sono già vicino al margine della prima delle due paginette che mi sono state concesse, dunque abbozzo solo qualche calcolo, non prima di aver illustrato un ultimo punto del meritevole libro di Giacché, libro che vi invito a comprare e a leggere sotto l’ombrellone o sotto un pino.

Cosa può insegnare oggi la storia di questa annessione?

L’Anschluss, dice Giacché – e qui apro una parentesi nella parentesi (cedendo a quel gusto francese per la letteratura e il frivolo, gusto che cattura e trascina il sano spirito demolitore [Rückbau] verso l’abyme – o la «mise en abyme») - l’Anschluss, dice Giacché nella Conclusione, ci impartisce una prima lezione, soprattutto a noi italiani, e poi ci impartisce una seconda e una terza lezione – e qui, cedendo ancora al ragionamento parentetico, noto come la Conclusione e la Premessa di «Anschluss» (che, per brevità, chiamo libro – il «libro») cintano il libro, rassicurando il lettore, come si faceva nel romanzo del Settecento, e come ripete Eco in «Il nome della rosa» o, in modo più subdolo, John Barth nel Coltivatore del Maryland, lo rassicurano che ciò che sta per leggere è un fatto veramente accaduto, e non un frutto della fantasia o, peggio, della propaganda.

Nella Seconda pagina del libro (dunque nella Prefazione) Giacché sente di dover rassicurare il lettore che tutto ciò che leggerà, a differenza delle versioni degli stessi episodi romanzati alla francese, tutto ciò che il lettore leggerà (cito) è stato raccontato in modo quanto più possibile aderente al reale svolgimento dei fatti; che tutto ciò che il libro riporta è raccolto direttamente dalla viva voce dei protagonisti - dei vincitori e degli sconfitti - verificando la corrispondenza dei racconti e delle tesi e dei punti di vista con i dati.

Da questo racconto, verificato con i dati, il lettore italiano, si dice nella Conclusione, dovrebbe imparare due o tre lezioni.

La Premessa si congiunge con la Conclusione, in un circolo in cui fa bella mostra la Ragioneria – se questa Ragioneria abbia a che fare con la Vernunft o il Verstand lo scopriremo presto.

I conti degli Ossi non restituivano il risultato atteso. E non perché, come è stato raccontato dalla propaganda dell’Ovest, gli Ossi non fossero bravi ragionieri, ma perché l’espediente contabile di cambiare i crediti nel rapporto di 1 a 1 e i debiti nel rapporto di 1 a 2, nascondeva una contabilità precedente, in cui il rapporto di cambio tra il Marco Wessi e il Marco Ossi era di 1 a 4,44.

Anche un ragioniere alla prime armi sa applicare questo coefficiente alle merci Ossi, e dimostrare come il loro prezzo nominale fosse lievitato in una misura tale da privarle di qualsiasi mercato. Come sa dimostrare che questi stessi prezzi, divisi per 4,44 (o 4,45) sarebbero potuti tornare (con gesto meramente contabile) ai livelli precedenti, realizzando così (cito) quella flessibilità del cambio, ossia quella possibilità di svalutare mediante quello strumento formidabile che avrebbe permesso alle proprie merci di stare sul mercato allo stesso titolo delle merci degli altri.

Perché non fu applicato questo espediente contabile?

Perché l'applicazione del coefficiente non è un’operazione di mera ragioneria. Perché, come sa bene Giacché (perché lo ha scritto a più riprese, sin dalla sua tesi di dottorato) il coefficiente, persino nella sua (presunta) neutralità numerica, non risponde ad una conformità di oggetto e rappresentazione, di cosa e pensiero. Il coefficiente non fotografa un dato di fatto. Il numero ha una struttura ontologica - e non gnoseologica.

Ciò non significa che il coefficiente, inteso come una fotografia di un presunto stato delle cose, possa essere tolto con un tratto di penna – cancellato. Questa cosa non è possibile (la realtà non si falsifica). Non solo perché i numeri, intesi in questa loro presunta neutralità, sono usati tutti i santi giorni. Ma soprattutto perché, e qui si misura la maggiore complicazione, questi numeri non si lasciano togliere se non adoperandoli, se non usandoli - non essendoci altro su cui poggiare i piedi per spiccare il salto mortale. Non c’è altra via per eliminare questi indici se non attraverso questi stessi indici. A meno che non si voglia dar credito a quelle forme di storicismo invertebrato tipiche delle narrazioni post-moderne.

Ma qui, direbbe qualcuno, si cade in un circolo.

Certo! Si cade in un circolo.

Ma noi non temiamo i circoli - risponderebbe Giacché. I nostri circoli non sono quelli della logica formale, ovvero della logica da salotto.

Rimane che per accettare un contenuto come vero, per accettare l’intero libro di Giacché come il racconto di fatti veramente accaduti, e non il racconto di fatti astratti, bisogna infine assicurarsi che il contenuto non sia mediato con un altro, che non sia finito, e che quindi esso si medi con se stesso, e così, in un sol tratto, si esprima come mediazione e relazione immediata con se stesso (Hegel, Enciclopedia § 74). Questo è il punto – dice Giacché. Questo è ciò che ho voluto dimostrare sin dalla mia tesi di dottorato.

Ora, la storia della RDT che ho raccontato dimostra proprio questa tesi. Dimostra che l’indice può funzionare solo e fintanto che è una protensione di un medesimo che si allunga e si media con se stesso, facendo girare l’economia con un moto auto-poietico. Quando invece l’indice è posto dall’esterno, tutto si muove per imposizione e secondo fini che non sono i propri, e che dunque non giovano alla propria economia, ma giovano all’economia di chi li ha imposti.

Cosa sia questo coefficiente del 4,4 credo sia chiaro a tutti, tranne che al ragioniere. Il quale si ostina a ritenere – nonostante la spiega chiara di Giacché - si ostina a ritenere questo 4,4 un numero neutro. Frutto di un calcolo matematico o di una fotografia di un presunto stato delle cose. Ma non c’è alcuno stato delle cose. Se volessimo essere perfidi (e francesi) diremmo che lo stato delle cose è creato proprio dal coefficiente; che il coefficiente, come tutti i numeri che il mesto ragioniere produce nel suo libro contabile, sono armi da guerra, e che dunque non c’è libro vero e proprio se non nella finzione neutralizzante di questo coefficiente di traduzione.

È evidente oltre ogni dubbio, e Giacché lo ha dimostrato in modo chiaro e preciso, che anche quest’uso ultimo del coefficiente (come arma da guerra) implica, nella sua differenza, un’intesa minimale sulla sua identità, e che, a questo stadio, ogni differenza non fa che rimandare ad una identità, in una serie di rimandi che rendono tutto il ragionamento dell’ultimo paragrafo uno scherzo infinito – senza nessuna allusione a D. F. Wallace, che in questa storia farebbe fatica a stare dalla parte degli Ossi, anche se non potrebbe stare da nessun’altra parte.

Fra gli Ossi, nessuno, preso singolarmente, era disposto a svalutare il proprio credito (stipendio, affitto, pensione, eccetera) di un quarto. Inoltre, in un tempo ristretto, nessuna forza sarebbe stata forte abbastanza da far accettare la riduzione di un quarto agli operai, ai pensionati, agli impiegati e ai professori. Ci si poteva provare, dice Giacché, ma la prova avrebbe richiesto almeno dieci anni. Per giungere a un allineamento delle due economie bisognava dare tempo agli Ossi di scegliere una delle due soluzioni possibili: 1) aumentare la produttività con gli investimenti, o 2) diminuire lo stipendio mediante la deflazione salariale. Ovvero evitare l’imposizione e l’eterodirezione, mediante l’auto-imposizione. Santa astuzia della ragione!

Insomma, una volta gettata la Premessa e caduti nelle spire dell’economico, non ci sarebbe stata altra strada se non la stretta via battuta dal Ragioniere, con i suoi calchi e i suoi calcoli. E anche se questi calchi e indici fossero apparsi come carenti e manchevoli, frutto di astrazioni dell’intelletto, non bisognava disperare, perché, se la Premessa è ben posta, l’azione del Ragionerie consisterà nel redigere un bilancio nel quale la Premessa si dilegua per ritrovarsi nella Conclusione, secondo quella dialettica in cui io, pratico e attivo, mi determino agendo, ossia ponendo una differenza. Questa differenza che io pongo mi appartiene, è interna alla struttura - la determinazione spetta a me. Il fine, la Conclusione verso cui tendo è una determinazione che mi appartiene, posta da me. In questo travaglio realizzo la mia libertà. Sono presso di me nell’altro. L'altro mi appartiene. Sono nell’altro allo scopo di tornare in me. La verità non è dunque l’adeguamento del pensiero con i dati di fatto, ma consiste nella capacità di muoversi nelle mezze verità della ragioneria per far ritorno presso di sé - non negarle e nemmeno usarle in quanto mezzi, ma viverle con passione. Amen.

https://sinistrainrete.info/estero/18257-leo-essen-anschluss-l-ultima-lezione-di-vladimiro-giacche.html

venerdì 6 luglio 2012

ALBERTO BAGNAI - CE LO CHIEDE L'EUROPA



L'economia spiegata in modo da poter essere capita da chiunque.
Un video intelligente e formativo da non perdere assolutamente.

giovedì 26 aprile 2012

Goofynomics: Svalutazione e salari (ad usum piddini): il mio 25...


Svalutazione e salari (ad usum piddini): il mio 25 aprile

La seguo con interesse e comincio a capire qualcosa in più di economia ma qualcosa non mi torna: l'uscita dall'euro ci permetterebbe di riequilibrare i nostri rapporti economici con  la Germania svalutando la nostra moneta invece di ridurre i salari.
Ma io ho sempre saputo e verificato nella mia sessantenale esperienza che il primo effetto della svalutazione alias inflazione è la riduzione del potere d'acquisto - valore dei salari. Dove sbaglio? Lo chiedo con molto rispetto, da incompetente

Julian Wells


Sessanta anni di esperienza non sono uno scherzo. Come minimo esigono che il rispetto sia ricambiato! Ora, io sono molto goloso, e anche molto rispettoso, di aneddoti. Indipendentemente dai risultati, sulla propria vita ognuno ha competenza, quindi riguardo ai suoi aneddoti lei certo incompetente non è. Solo che... questa è la famosa sindrome "mi' cuggino", quella che ai lettori di questo blog richiama l'immortale figura di Dana74, la gentile lettrice di CDC e dedicataria di questo post, alla quale proprio non entrava in testa il fatto che gli aneddoti raccontati dai giornali sulla situazione di alcuni operai tedeschi particolarmente privilegiati non fossero rappresentativi di un intero mercato del lavoro.

"Mi ha detto mi' cuggino che dopo la svalutazione è stato peggio"... Chissà... Anch'io dopo la svalutazione del 1992 ho perso i capelli. E dopo quelle degli anni '70 sono diventato miope. Ma (soprattutto in quest'ultimo caso) siamo proprio sicuri che la colpa fosse della svalutazione? Per verificarlo facciamoci aiutare non da un oculista, e nemmeno da un parroco (chi svaluta perde la vista) ma dai dati. Sessanta anni, di dati, non ne abbiamo. Ne abbiamo cinquantuno. Credo basteranno. Questa breve analisi ci permetterà di sfatare alcuni miti piddini, delle lievi imprecisioni (per la definizione rinvio a questo post) che enuncio:

1) la svalutazione è inutile perché si traduce in inflazione (svalutazione alias inflazione), dato che con una valuta più debole pago di più i prodotti importati: quindi, se da un lato io "drogo" la competitività perché faccio pagare di meno la mia valuta, dall'altro il prezzo dei miei beni aumenta (perché aumenta il costo degli input importati), e quindi per l'acquirente estero la situazione rimane invariata: paga meno le "lire", ma paga di più i beni italiani, i due effetti uguali e contrari si annullano: la svalutazione non aiuta la competitività;

2) l'inflazione è la più iniqua delle imposte in quanto abbatte il potere d'acquisto del povero lavoratore: se i prezzi aumentano, i salari perdono potere d'acquisto (certo, se non sono aumentati anche loro...);

3) quindi la svalutazione è inutile ed iniqua (somma delle precedenti).

(apro e chiudo una parentesi: la lieve imprecisione sub (2) oggi è il leit-motiv di personaggi come questo, ma viene comunemente attribuita, non so su quali basi, a quel comunista di Einaudi... e già questo dovrebbe indurre qualche sospetto, no?).

Penso che questo sia anche il meccanismo che lei ha in mente e che in qualche modo ha inferito dalla sua esperienza sessantennale. Bene. Si metta comodo. Se può capire, alla fine di questo post sarà un'altra persona, una persona migliore perché più informata di quello che è successo agli altri (che mi sembra di intuire le interessino). Se non può capire, amici come prima: avranno almeno capito gli altri.

La svalutazione è inutile perché si traduce in inflazione (svalutazione alias inflazione)
I dati ci sono, usiamoli. Dall'edizione 2010#12 delle International Financial Statistics del Fondo Monetario Internazionale estraggo le serie di tasso di cambio effettivo nominale (codice IFS: 136..NECZF...) e indice dei prezzi al consumo (codice IFS: 13664...ZF...), così vediamo come sono andate le cose.

Ma prima, forse, occorre qualche precisazione, per capire i dati.

Cos'è un tasso di cambio effettivo? Semplice. Un paese normalmente non ha un unico partner commerciale: ne ha tanti (nelle ultime statistiche quelli dell'Italia sono intorno ai 200). Quindi se si vuole capire quale sia l'effettiva forza di una valuta, non ha particolare senso far riferimento a un unico tasso di cambio, per quanto significativo (come ad esempio quello lira/dollaro, o, oggi, euro/dollaro). Molto meglio far riferimento a una media dei tassi verso tutti i partner, ponderata con le rispettive quote di mercato. Se il 20% del mio commercio va verso il marco e il 10% verso il dollaro, il cambio con il marco conterà per il 20%, quello col dollaro per il 10%, ecc.

Questo tasso "medio" viene espresso come indice, prendendo come riferimento un anno base, che viene posto uguale a 100. Come i cambi che lo compongono, l'indice può essere espresso "incerto per certo" o "certo per incerto". Vi ricordate come veniva quotata la lira? Quando passava da 1200 a 1250 sul dollaro significava che ci volevano 50 lire in più per acquistare un dollaro, cioè che la lira si era svalutata (e quindi che ci sarebbe dovuta essere inflazione...). Questa è la quotazione "incerto per certo". Oggi invece come viene quotato l'euro? Quando passa da 1.20 a 1.25 sul dollaro vuol dire che un euro compra cinque centesimi di dollari in più, cioè che l'euro si è rafforzato.

La quotazione "incerto per certo" rende più semplice verificare se una svalutazione si traduce immediatamente in altrettanta inflazione: se questa asserzione è vera, i due indici, quello del cambio e quello dei prezzi, dovrebbero muoversi insieme e nella stessa misura. Un "aumento" dell'indice del cambio vorrebbe dire che la lira ha perso forza, si è svalutata (occorrono più lire per acquistare la valuta straniera), e questo, se il piddino avesse ragione (ipotesi ardita) dovrebbe essere correlato "one to one" a un aumento dell'indice dei prezzi.

E infatti...


E infatti una bella sega, ovviamente, come la Fig. 1 mostra. Vediamo cosa ci dice, questa figura.

Intanto, sul periodo dal 1975 al 2009, l'Italia ha complessivamente svalutato in termini nominali del 45% (l'indice TCE, Tasso di Cambio Effettivo, vale 66 nel 1975 e 96 nel 2009), mentre l'inflazione complessiva è stata dell'840% (l'Indice dei Prezzi al Consumo, IPC, vale 12 nel 1975 e 108 nel 2009). Quindi? Quindi evidentemente nella dinamica dei prezzi c'è molto di più che non il tasso di cambio, che, qualora anche contribuisse, certo non pare possa contribuire in modo molto significativo, visto che l'aumento dei prezzi è stato circa 19 volte quello del cambio!

E già qui potrei fermarmi, perché vi ho dimostrato che chi vi ha detto certe cose non sa di cosa stia parlando.

Ma i sadici, si sa, adorano i dettagli: nulla vi sarà risparmiato. Perché voi potreste dire: "be', d'accordo, sì, c'è altro, lo sappiamo, però è evidente che il cambio contribuisce...".

E invece no! Due esempi, prima nella Fig. 1, dove li vede solo l'occhio esperto, poi con lo zoom. Nel 1979, in corrispondenza con l'inizio dell'avventura italiana nell'area del marco allargata (si chiamava Sistema Monetario Europeo, ora si chiama euro, ma è sempre la stessa cosa), la lira rivalutò del 22% (vedete come diminuisce bruscamente la linea blu?), ma l'inflazione aumentò dal 14% al 22% (vedete che la linea rossa diventa più inclinata?). Insomma: il contrario di quello che pensano i piddini (adesso, poi, pensano... una parola grossa: diciamo: il contrario di quello che ripetono). E volete il controesempio? Eccolo servito: fra 1992 e 1993, come sapete, la lira svalutò del 20% (vedete come si innalza bruscamente la linea blu?), ma l'inflazione diminuì dal 5% al 4% (vedete che la linea rossa diventa meno inclinata?).

Più in generale, vedete che il tasso di cambio, pur avendo minor varianza nel lungo periodo (si muove di meno: aumenta solo del 45%, mentre i prezzi aumentano dell'840%), ne ha molta di più nel breve: vedete come si agita la linea blu: sale, scende... si chiama volatilità. La linea rossa, invece, cioè i prezzi, è liscia: si chiama persistenza. Ecco: già la figura 1 dimostra, in due modi molto eloquenti, che non è vero che i prezzi si muovono in modo da annullare gli effetti dei movimenti del cambio:

1) non è vero, perché nel breve periodo il cambio si muove molto di più dei prezzi(quindi questi non riescono comunque a "cancellare" gli effetti di svalutazioni e rivalutazioni);

2) non è vero, perché in numerosi episodi i prezzi si sono mossi in senso opposto ai cambi (quindi, ad esempio, le svalutazioni - aumento del cambio - non sono state cancellate da inflazione - aumento dei prezzi).

Vediamolo in un modo diverso.


La Fig. 2 riporta i tassi di svalutazione e di inflazione. Non sono niente altro che la variazione percentuale degli indici riportati nella Fig. 1. Qui si vede in modo più chiaro che la rivalutazione del 1979 si verificò a inflazione crescente, e la svalutazione del 1993 a inflazione calante.


Svalutazione e inflazione nei favolosi anni '70
A questo punto arriva (o meglio, arrivava) sempre un imbecille che diceva: "Bagnai, tu sei fazioso, ci stai facendo vedere solo i dati a partire dal 1975 perché evidentemente prima le cose andavano in modo diverso e quindi tu vuoi nasconderci quello che succedeva".Amico imbecille, simpatica forma di vita malamente organizzata, alla quale dobbiamo il rispetto che a tutte le forme di vita si deve, incluso il ragno, la blatta e lo spaghetti-liberista, a parte il fatto che di quello che succedeva quaranta anni fa potrebbe anche non importarcene nulla, io riporto i dati dal 1975 solo perché la mia fonte li riporta a partire da quella data. Ma se vogliamo avere un'idea approssimativa di come le cose andassero prima, un modo c'è: possiamo guardare come si muoveva il tasso di cambio lira/dollaro. Sai, prima del 1975 (dal 1971 all'indietro) c'era il sistema di Bretton Woods, di cui il dollaro era il perno; e poi, sai, tu lo sai, e come se lo sai, ce le gonfi ogni due per tre con questa storia, il petrolio è quotato in dollari, quindi il cambio col dollaro è quello che incide sulla bolletta energetica...

Allora guarda: faccio questa operazione: ricostruisco all'indietro il cambio effettivo usando le variazione del cambio col dollaro. Poi, se vuoi, ti mando anche le market shares e i cambi nominali bilaterali, e tu ti calcoli il cambio effettivo (ma chissà se le sai, le tabelline...).

Comunque: il risultato è questo qui:


Ecco la big picture, così facciamo contento anche l'amico del tornese (amicus Plato, sed magis amica veritas). Dunque: prima del crollo di Bretton Woods la svalutazione/rivalutazione della lira era praticamente zero: la spezzata blu coincide con l'asse delle ascisse, cioè con lo zero. Ovvio: i cambi erano fissi, il che significa che non si muovevano.

Oh, che bel mondo! Aurea prima sata est aetas... Quindi... se i cambi erano fissi... se la svalutazione era zero... anche l'inflazione sarà stata zero!

No, tesoro, non è così. Vedi bene, amico spaghetti-liberista (scusi Julian se la trascuro, ma lo spaghetti-liberista è un amico di più vecchia data), vedi bene che anche a cambio fisso l'inflazione c'era, e come. L'inflazione dipende da tante cose (ecco, ora però non attaccate col coretto "monetasovrana", per favore...): ad esempio, negli anni '60 eravamo in pieno boom economico, e questo Julian lo ricorda, e quindi la pressione della domanda sulle risorse generava aumenti dei prezzi (per inciso, io sono nato nel dicembre del '62, ma per un anno sono andato avanti a latte materno, quindi il picco di inflazione nel '63, caro spaghetti-liberista, non è certo colpa mia).

Ma andiamo avanti, vediamoli, i dettagli. Che succede nel 1971? Il cambio scende, cioè la lira rivaluta. Be', se vogliamo metterla così... In effetti nel 1971 Nixon si sfilò all'inglese dal sistema di Bretton Woods per permettere al dollaro di svalutarsi: il deficit delle partite correnti non gli lasciava molta scelta. Certo: la svalutazione del dollaro, vista dall'Italia, somiglia molto a una rivalutazione della lira (Goofynomics): il cambio nominale scende... ma... horribile visu... e i prezzi che fanno? Salgono! Ma se la lira rivaluta!?

"Cazzo (penserà l'amico spaghetti-liberista): avrei fatto meglio a stare zitto: pensavo che Bagnai stesse nascondendo un episodio che gli dava torto, e invece ne stava solo nascondendo uno che gli dava ragione." Eh già, amico caro, come al solito: fosse la prima volta che succede!... A Roma dicono: datti una chiodata in fronte. Guarda, secondo me fra i miei lettori uno che ti aiuta lo trovi. Sì, pensa, nel 1971, mentre la lira rivalutava, l'inflazione già stava crescendo, e da un anno. E perché? Ma perché c'era stato l'autunno caldo, tesoro di papà, quello del 1969, ricordi? Gli operai si erano un po' seccati di tirare la carretta senza partecipare ai benefici, e quindi, sai, rivendicavano... volevano l'aumento... ma se io vi dico che l'inflazione si decide sul mercato del lavoro (salvo eventi catastrofici, che vediamo subito), mi volete stare a sentire?

Ecco... però... attenzione. Sapete (o intuite) che con questo lavoro mi sono fatto molti amici. Quelli che mi preoccupano di più sono quelli che stanno zitti, aspettandomi al prossimo concorso. L'amico del tornese mi preoccupa di meno perché parla. In una precedente occasione ebbe a esprimere nostalgia per il mondo di Bretton Woods, dopo il crollo del quale l'inflazione regnò sovrana (a opera, credo, della flessibilità del cambio...). E infatti, dirà, vedi, negli anni '70 l'Italia svaluta e l'inflazione decolla...

Eh no, non ci siamo... Amico caro, mettiti gli occhiali e osserva il grafico: il picco dell'inflazione negli anni '70 è nel 1974 (quasi il 20%), e si manifesta dopo che, per effetto del primo shock petrolifero del 1973, il prezzo del petrolio era quasi quadruplicato (un aumento del 258% per l'indice medio, e del 284% per il Dubai Fateh). Il picco della svalutazione è  successivo di due anni, si manifesta nel 1976, dopo che nel 1975 la recessione aveva determinato un calo del prodotto del 2% e passa, anche in conseguenza dei soliti tentativi di "difendere" il cambio. Quindi, ancora una volta, non è stata la svalutazione a causare l'inflazione. Eventualmente il contrario. E, nota bene: la svalutazione fu quella che serviva a recuperare la competitività che con l'inflazione si era persa: il 20%. Non ne serviva di più, e non ne serviva di meno. Ed è sempre stato, e sempre sarà così.

Apprezza poi il dettaglio, per inciso: anche in un mondo nel quale non si parlava di energie alternative, e nel quale la dipendenza dal petrolio era molto più spinta di oggi, l'inflazione fu solo il 7% dell'aumento del prezzo del petrolio! E allora cos'è questa storia con la quale ci scassate dalla mattina alla sera, che poarin'a nnoi, un sia mai 'e si esce dall'euro, ohimmèna, i' ppetrolio ci spianterà...

Certo: la bolletta energetica mette un bel freno alla crescita dell'Italia. Ma il discorso è più articolato, o se volete, meno scemo, di come lo si sente fare di solito. Se volete un giorno lo facciamo. Per ora, cacciatevi in testa questo: chi fa terrorismo su questo tema è, appunto, un terrorista (di destra).

Alio modo: il cambio reale
Ma allora, ricapitoliamo: se non è vero che la svalutazione nominale viene immediatamente e integralmente annullata da aumenti dei prezzi, cioè se non è vero che "svalutazione alias inflazione", se anzi è vero che le variazioni dei prezzi, come i dati mostrano, sono più lente e più contenute di quelle del cambio... quindi... quindi... quindi la svalutazione nominale influisce sulla competitività! Quindi non è vero che svalutare è inutile!

Bravo, hai capito. E del resto i dati ci dicono anche questo. Perché sai, all'IMF si danno un sacco da fare: fra un colpo di Stato (se va bene finanziario, altrimenti militare) e l'altro, fra una "raccomandazione" e l'altra, stanno lì e compilano, compilano... Quindi producono anche le statistiche del tasso di cambio reale, cioè del rapporto fra prezzi italiani e prezzi esteri, espressi nella stessa valuta. Ora, vedi, se l'Italia svaluta (il cambio sale), per il resto del mondo i suoi beni diventano più convenienti (il cambio reale scende). Perché? Ma per la Goofynomics, tesoro caro. Facciamo il caso Italia/Usa. Se il cambio italiano sale perché ci vogliono più lire per acquistare un dollaro, dall'altra parte ci vogliono meno dollari per acquistare una lira, e quindi i beni italiani diventano convenienti rispetto a quelli statunitensi, e il cambio reale (rapporto fra prezzi italiani e prezzi statunitensi espressi nella stessa valuta) scende.

Se la svalutazione nominale fosse inutile, invece, quando il TCE si muove, il cambio reale dovrebbe stare fermo!

E le cose come stanno? Stanno così:


Vedi, caro: quanto l'Italia svaluta (e quindi il tasso nominale, in blu, sale, perché ci vogliono più lire o euro per acquistare la valuta estera), siccome, come abbiamo visto, non c'è necessariamente più inflazione, il prezzo dei beni italiani in valuta estera scende rispetto a quelli dei beni esteri, e quindi il loro rapporto (Tasso di Cambio Reale, TCR) scende, cioè i nostri beni costano meno per gli acquirenti esteri, cioè diventano più convenienti, cioè la svalutazione serve. Perché non si traduce tutta e subito in inflazione. Vedi come vanno "a specchio" le due serie? Ma si vede ancora meglio se consideri la loro variazione percentuale. Eccola qua:


Vedi che bella correlazione negativa? Tutte le volte che svalutiamo, i nostri beni diventano più convenienti.
Quindi? Quindi "svalutazione alias inflazione" una bella sega, direi. Ci sono più cose fra svalutazione e inflazione di quante il limitato numero di sinapsi piddine possa concepire: non si faccia trarre in inganno, gentile lettore: nell'esperienza storica la svalutazione del cambio nominale non si è tradotta automaticamente e integralmente in inflazione, tutt'altro. Il pass through, cioè il trasferimento, della variazione del cambio sui prezzi interni è estremamente ridotto nella nostra, come in molte altre economie.
Ma... è una novità? Una mia scoperta? Esiste un qualche fottutissimo motivo per il quale un economista (o uno dei tanti guitti che si dichiarano tali) possa ignorare queste realtà?

No.

Sono risultati di studi scientifici ben noti, sono cose che stanno in tutti i libri di testo. Esempio: Giancarlo Gandolfo, 2002, International Finance and Open Economy Macroeconomics, Berlin, Heidelberg: Springer Verlag, pag. 290, dove si cita, fra l'altro,questo studio della Banca centrale del Brasile, le cui conclusioni stabiliscono che nei paesi OCSE (fra cui l'Italia) il pass through è molto basso, molto più basso che nei paesi emergenti.

Dice: ma dobbiamo proprio arrivare in Brasile per farcelo dire da uno studio scientifico? Rispondo: amici cari, i nostri banchieri centrali sono tutti lì, coesi, a farci paura con lo spettro della svalutazione che genera inflazione... Fanno propaganda... Come volete che i nostri piccoli Goebbels si dedichino a uno studio scientifico sull'argomento, il quale tragicamente smentirebbe la loro propaganda, come la smentiscono le evidenze descrittive che vedete qui sopra? E quindi, viva il Brasile...



L'inflazione è la più iniqua delle imposte perché danneggia la vedova, l'orfano, e il proletario (fatevelo dire da me, che sono un banchiere centrale a 60000 euro di appannaggio al mese)
Forse qualcuno, arrivato qui, ha capito di essere stato preso in giro. Magari lo aveva intuito, da sempre, che certe frasi erano grossolane menzogne, pura propaganda, pura disinformatia. Ma certo, vederselo significare così, coi dati... Capisco possa fare effetto... E forse voi capite me: io queste cose le so, da sempre, e so anche che tutti gli altri le sanno, guitti compresi. E quindi capirete che ogni tanto mi girino.

Ma mai quanto gireranno a voi quando avremo affrontato questo altro caposaldo del pensiero piddino. Ma, ancora una volta, pensiero è una parola grossa. Diciamo, un altro caposaldo dell'ecolalia piddina, della petulante, querula, impacciosissima reiterazione di luoghi comuni da parte di persone alle quali, un giorno o l'altro, bisognerà pur chiedere il conto per il fatto che hanno contribuito a metterci nella condizione nella quale stiamo (oh, un conto politico, si intende. Le randellate, quelle, come sapete, se le danno già da soli: con la sinistra).

Perché vedete, il ritornello è sempre il solito: "meno male che l'euro ci ha difeso dall'inflazione, perché l'inflazione erode il potere di acquisto...". Già. Però c'è anche chi non la vede così. Vediamo ad esempio cosa dice Nicola Acocella, a pag. 121 di "La politica economica nell'era della globalizzazione", Roma: Carocci (22 euro spesi bene), parlando dello Sme, cioè degli accordi di cambio fisso ma aggiustabile che, come ricorderete, furono il prodromo dell'euro:

"Il funzionamento... dello SME sembrava, però, soddisfare in questo modo la precondizione per il raggiungimento dell'obiettivo, che qualche paese si era posto, diintrodurre un elemento esterno di disciplina al comportamento di alcuni operatori: sa la politica monetaria nell'ambito dello SME era sostanzialmente quella fatta dalla Germania, notoriamente ispirata a obiettivi di stabilità dei prezzi, i comportamenti interni degli operatori negli altri paesi dovevano adeguarsi. Questa ipotesi sembra abbastanza plausibile e capace, fra l'altro, di concorrere a spiegare perché la Banca d'Italia, inizialmente contraria all'adesione allo SME, lo abbia poi accolto senza riserve, invocando, anzi, gli obblighi di mantenimento della stabilità dei cambi che ne discendevano per contrastare politiche salariali... ritenute inflazionistiche (politica del cambio forte)"

Insomma: Acocella ci dice che l'adesione prima allo Sme, e poi all'euro, insomma, l'ingresso coatto in quella che Francesco Carlucci chiama la zona del marco allargata (L'Italia in ristagno, Milano: Franco Angeli, 2008, altri 22 euro spesi bene), insomma: la moneta unica aveva uno scopo ben preciso: quello di tagliare le retribuzioni al grido, ultimamente diventato assordante, di "l'Europa chiamò".

E come si fa a vedere se ha ragione Enrico Letta o Nicola Acocella? Ad esempio guardandoli negli occhi, mi sentirei di dire. Ma non voglio imporre a nessuno la sofferenza umana di guardare negli occhi Enrico Letta. E allora guardiamo i dati. Perché una cosa è chiara: se ha ragione Letta, allora dovremmo aspettarci che nei periodi con maggiore inflazione i salari perdano potere di acquisto, cioè i salari reali (salari divisi per i prezzi) calino o crescano di meno. Se ha ragione Acocella, allora dovremmo aspettarci che dopo l'ingresso nella "zona del marco allargata", cioè dopo il 1979, i salari reali calino o crescano meno velocemente. Basta fare un grafico per vedere com'è andata. E il grafico è questo:


(l'indice dei salari reali è costruito deflazionando con l'indice dei prezzi al consumo quello delle retribuzioni contrattuali, codice IFS 13665...ZF...).

Fischia! Alla faccia dell'imposta più iniqua! Vorrei avercela io un'imposta così! Cosa dice il grafico? Semplice: che tutte le volte che l'inflazione comincia a calare (come dal 1965 al 1969, e dal 1980 ad oggi), i salari reali smettono di crescere. E quindi che da quando siamo nella zona del marco allargata (cioè dal 1980) i salari reali sono stati praticamente fermi, nonostante si sia vinta la guerra contro il nemico pubblico numero uno: l'inflazione (nemica della vedova, dell'orfano, ecc.).

Ripeto: salari reali fermi: linea blu praticamente piatta dal 1980 (come, dalla nascita, certi elettroencefalogrammi). Lo vedete, no?

"Ehi, amico? Ma mi stai dicendo che i dati dicono il contrario di quello che dice Letta? Lui dice che quando l'inflazione aumenta io perdo potere d'acquisto, cioè il salario reale cala o cresce poco. E siccome lui è di sinistra, e io sono di sinistra, evidentemente è così, perché, sai, è un po' come nel Candide: se lo ha detto Leibniz, io che sono un filosofo..."

Eh...

Piddino mio, benché il parlar sia indarno
alle gravi lacune
che dentro al cranio tuo sì spesse veggio,

lasciati almeno dire una cosa: io lo so che non è colpa tua!

Aspetta, lo spiego ai miei lettori (abbia pazienza, Julian). Vedete cari, la colpa non è del piddino. Lui, poraccio, ha un neurone solo. Quindi se gli dicono "prezzi", lui nel suo unico neurone ci alloca i prezzi, e poi non ne ha un altro per allocare il numeretto dei salari. E quindi non riuscirà mai ad avere un'idea esatta di cosa succeda al rapporto fra salari e prezzi (cioè al salario reale) quando l'inflazione c'è, e quando non c'è. Ma se volete una sintesi, ve la fornisco io. Negli anni '70 l'inflazione ha viaggiato a una media del 12% all'anno, e i salari reali (cioè il potere di acquisto dei lavoratori) sono aumentati in dieci anni del 65% (un po' più del 6% all'anno). Dal 1980 a oggi, cioè nel favoloso periodo della zona del marco allargata, cioè da quando l'Italia ha tentato di agganciarsi a una valuta più forte della sua, l'inflazione ha viaggiato in media al 6% all'anno, e i salari reali sono aumentati, in 30 anni, del 17% (un po' più dello 0.5% all'anno).

Vi fa ancora paura l'inflazione? Certo, qualcuno non lo avrà ancora capito, ma glielo spiego io: se non siete dei capitalisti, amici cari, con un po' più di inflazione stavate meglio. "Ma Letta dice il contrario!" Ma Letta vi sembra un proletario? A me sembra piuttosto un parente...

Certo, adesso arriverà il solito furbo che dirà: "ma appunto, l'orrenda inflazione degli anni '70 era dovuta all'ingordigia dei lavoratori: loro volevano essere pagati, e quindi alzavano il costo del lavoro, e tiravano su l'inflazione. E poi, si sa, è normale: ultimamente i salari reali stanno fermi perché i lavoratori italiani non sono produttivi. Abbiamo un problema di produttività...".

Alt, fermi tutti! Le cose non stanno esattamente così. E ve lo faccio vedere in un altro modo, perché noi la produttività dell'Italia qui la abbiamo studiata, oh, se l'abbiamo studiata!


Ecco, vediamola insieme ai salari reali. Cosa ci dice il grafico? Ci dice che dal 1970 al 1974 i salari reali sono cresciuti di pari passo con la produttività, come ci si aspetta in un normale equilibrio di lungo periodo con distribuzione del reddito costante. Poi nel 1975 c'è la recessione (vedete un "dente" negativo nella produttività) e nel 1976 il Partito Comunista Italiano (PCI) raggiunge il suo massimo storico: 34.4%. Comme par hasard le retribuzioni reali cominciano a crescere più della produttività. Cosa significa? Significa che, spaventati, i capitalisti italiani preferirono far aumentare un po' meno i loro profitti, e un po' più i salari dei lavoratori. Ma durò poco. Con l'ingresso nell'area del marco allargata, cioè dopo il 1979, la lotta di classe cominciano a farla i capitalisti: la produttività continua a crescere (perché gli italiani lavorano, nonostante quello che pensa Sinn), ma, guarda caso, al grido di "l'Europa chiamò" i salari vengono compressi, repressi, e rimangono stazionari, fino a che, nel 1995, il divario si chiude, e da allora stanno fermi sia loro, sia la produttività.

Capito cosa voglio dire quando dico che l'euro (e prima lo Sme) sono stati usati come strumento di lotta di classe? Voglio dire che da quando ci siamo sentiti dire "lo vuole l'Europa" la dinamica (e quindi la quota distributiva) dei salari è stata compressa (e quindi quella dei profitti si è allargata). A questo serve l'euro. Non a difendere la vedova e l'orfano. A difendere il capitalista e il rentier. E non lo dico io. Lo dice (diplomaticamente) Acocella, che ben descrive il modo in cui i banchieri centrali "indipendenti" cominciarono a scodinzolare attorno alla moneta unica non appena colsero il fatto che il peso politico del PCI era declinante (i famosi carri armati...), e lo dicono, meno diplomaticamente ma più asciuttamente, i dati.

Dite la verità: ora siete ancora più incazzati, no? E ci credo! Scusate se vi ho rovinato la giornata. A buon rendere... Questi sono i dati che i tanti piccoli Goebbels che vi parlano non vogliono farvi vedere, e del resto sono anche i dati che Donald è incapace di farvi vedere. Ma per fortuna c'è Goofy.

Quindi la svalutazione è inutile e iniqua
Ehi, amico piddino! Sei ancora qui? Non sei andato a nasconderti? Ecco, allora vedi che è come dico io? Con te è proprio inutile parlare.

Conclusioni
E allora, gentile lettore, tornando a lei, che conclusioni trae confrontando la sua esperienza con quella aggregata, con quella degli altri? Mi scusi, sa, non mi sono dedicato tanto a lei, ma ai miei tre migliori amici: il piddino, lo spaghetti-liberista, e l'amico del tornese. Ma se lei ha seguito, avrà comunque capito cosa è successo in Italia, e forse avrà anche capito dove lei sbaglia. Lei mi ha chiesto di dirglielo, e io glielo ho detto. Lei sbaglia (cortesia vorrebbe che aggiungessi "secondo me", ma verità vuole che io aggiunga: "secondo i dati") in due snodi del suo ragionamento: primo, la svalutazione non coincide con l'inflazione; secondo, l'inflazione non coincide con la perdita di potere d'acquisto da parte dei lavoratori. E certo che siccome il suo ragionamento di snodi ne aveva solo due, la situazione è un po' problematica, ma non lo dico per mancarle di rispetto, ma solo per provocarla a una riflessione.

Le variabili che incidono su questi tre fenomeni (svalutazione, inflazione, distribuzione del reddito) sono tante, e la lotta all'inflazione storicamente è stata lotta di classe... al contrario!

Ha capito ora a cosa serve il vincolo esterno? Ha capito a cosa serve la rigidità del cambio? Senta, io meglio di così non glielo so spiegare. Se lo ha capito, ora sta a lei spiegarlo a chi si trova intorno. Se non mi son riuscito a spiegare, avrà capito altre cose. In sessant'anni glie ne saranno capitate, di cose da capire, come a me in cinquanta. Non le ho mica capite tutte, e soprattutto non ne ho capita subito quasi nessuna. Ma ho insistito (invano?).

E alla fine la cosa che ho cercato di spiegarle oggi credo di averla capita. E credo anche che sia stata la cosa più importante nella storia recente del nostro paese. Voi che ne dite?


Oggi è l'anniversario della liberazione, e ho voluto contribuire anch'io liberandovi dal vero fascismo: quello dei luoghi comuni. Ora siete liberi. Sta a voi usare bene questa libertà. Sperando che ve lo lascino fare.

domenica 15 aprile 2012

Lo scopo inconfessato della riforma del mercato del lavoro


Dal Blog Goofynomics del 12 aprile 2012 del Prf. Alberto Bagnai.

La letteratura economica fornisce una semplice spiegazione di quanto sta accadendo oggi in Italia. L’economia ci dice che lo scopo (inconfessato) della riforma del mercato del lavoro deve essere quello di causare un incremento della disoccupazione. Un (ulteriore) incremento del tasso di disoccupazione si rende necessario per un motivo molto semplice: la curva di Phillips. La curva di Phillips stabilisce che la crescita dei salari è in relazione inversa rispetto al tasso di disoccupazione, una relazione individuata daA.W. Phillips nel 1958. Questa relazione non è mai stata posta seriamente in discussione nella letteratura empirica, come ci ricorda Jeffrey Fuhrer. Non sorprende quindi che gli economisti ne facciano tuttora uso per prevedere l’inflazione (Fendel, Lis e Rulke), ed è assolutamente evidente che il governo italiano sta facendo altrettanto.
In tutta evidenza, i fautori della riforma si aspettano che un innalzamento del tasso di disoccupazione moderi la crescita dei salari e quindi il tasso di inflazione. Ciò contribuirebbe a ristabilire la competitività di prezzo dei prodotti italiani e quindi a riequilibrare gli sbilanci esterni che sono alla radice della crisi dell’eurozona, come spiega ad esempio Martin Wolf. Tra l’altro, questo è uno dei motivi per i quali i mercati finanziari, che credono in questo meccanismo (come ci ricordano Fendel et al. in un altro lavoro), potrebbero accogliere con favore un innalzamento della disoccupazione in Italia.
L’unico piccolo problema con questo approccio è di natura politica, non economica. Il ragionamento del governo è impeccabile da un punto di vista economico. Il suo unico (trascurabile?) difetto è che nessun membro del governo sta dicendo la verità, ovvero che lo scopo immediato e inconfessabile di una riforma altrimenti insensata è quello di far aumentare la disoccupazione.

http://goofynomics.blogspot.it/2012/04/lo-scopo-inconfessato-della-riforma-del.html

The unconfessed goal of Italian labour market reform
(Poi ve lo traduco, se serve. Ora rockapasso mi chiamerà per dirmi che il mio inglese fa schifo. Sempre meno del nostro governo, però...)

The economic literature provides a straightforward explanation of what is going on in Italy right now.
What economics tells us is that the (unconfessed) goal of the labour market reform must be simply that of inducing a rise in unemployment. The reason why a (further) increase in unemployment is needed is very simple: Phillips curve. The Phillips curve posits a stable inverse relation between wage growth and unemployment, first uncovered by A.W. Phillips in 1958. This relation has never been seriously questioned in the empirical literature, as Jeffrey Fuhrer explains in his paper. It is therefore no surprise that professional forecasters still use it to forecast inflation(Fendel, Lis and Rulke), and the Italian government is obviously acting in exactly the same way.
In all likelihood, the reform proponents expect that a rise in unemployment would reduce wage growth, hence inflation. This would restore price competitiveness, and contribute to the rebalancing of the Eurozone external imbalances that lie at the heart of the current crisis, as described for instance by Martin Wolf. By the way, this is a reason why financial markets, that believe in this mechanism, as explained by Fendel et al. in another working paper, could welcome a rise in Italian unemployment.
The only little issue with this approach is not an economic, but a political one.
The preceding reasoning is perfectly flawless from an economic point of view. Its only (minor?) fault is that nobody in the government is telling the truth: namely, that the immediate unconfessed goal of an otherwise completely nonsensical reform is an increase in unemployment.

lunedì 2 aprile 2012